Critical writings

Arte e Critica


Le sculture di Chiara boniardi:

Siamo a Villa Pisani Bonetti, a Lonigo dove per l’estate è allestita la mostra “A tutto rotondo”, con testo critico di Giorgio Cortenova. Tre gli artisti presentati, scelti sulla base di una affine predisposizione verso le forme geometriche.

La scultura di Chiara Boniardi, nella foto, sembra pensata apposta per dialogare con la natura, pettinata ma non trattata, dal giardino della villa. Il disegno, messo in risalto dalla sagoma del tubolare di ferro, a volte si confronta e a volte si integra con il prato e con l’albero vicino al quale si trova. L’osservatore muovendosi, a causa dei giochi e degli incastri prospettici, ha modo di inglobare o di escludere il paesaggio. La struttura, complessa, è stata pensata in modo molto dinamico: il gioco non è mai statico, né ancorato a linee semplicemente verticali o orizzontali. Domina la diagonale, secondo variazioni ed opposizioni assai articolate. L’elemento centrale, che evoca con più forza l’inclusione di uno spazio – vuoto ma consistente – non è rigido. Gli angoli smussati e arrotondati gli donano un tocco di morbidezza e di complicità col paesaggio. Essi ci fanno ricordare che in natura non esistono angoli retti. L’eleganza energica e suadente di queste forme, assieme alla natura del ferro che arrugginendo promette di acquistare patina, ci fa sentire con sollievo parte di un mondo in cui dialogo e convivenza promettono un futuro ecologico, non utopistico, ma reale e dinamicamente in divenire.

Daniela Palazzoli.

Milano, giugno 2006.


Articolo dallo scritto critico edito in “arteecritica”n 43 anno XII luglio settembre 2005.
In occasione della mostra: ”A tutto rotondo”, nella villa dell’architetto Palladio: “Pisani Bonetti”.

Sei Artisti Note di lettura


Articolo dallo scritto critico in occasione della mostra all’Istituto Italiano di Cultura a Vienna.

SEI ARTISTI NOTE DI LETTURA

Di Giovanni Maria Accame

Un luogo, un passaggio in comune per sei artisti dal percorso differente.

L’Accademia è stata o è tuttora occasione di apprendimento. Lo è anche per chi scrive questo testo, non si vuole però fare di Brera un contrassegno, né tanto meno uno stile.

È certo invece che, tra queste istituzioni storiche, incomprese e offese da uno stato da cui dipendono e da cui sempre più sono lontane, Brera rappresenta, sapendola cogliere, una reale possibilità di incontro e di esperienza per chi desidera porre l’arte al centro dei propri interessi.

Chiara Boniardi, prima di giungere ai suoi più recenti lavori, aveva eseguito delle sculture in ferro e cemento che si distinguevano per il loro equilibrio precario. Una precarietà, guardando più attentamente, solo apparente, nel senso letterale di apparire tale alla vista.

Una apparenza trasmessa dalla forma dunque e non dalla sua effettiva solidità strutturale.

Ho voluto ricordare queste sculture perché con modalità totalmente differenti, è nuovamente l’apparire il perno su cui poggiano i nuovi oggetti. L’ultimo che ho potuto vedere è costituito da una struttura di tre lamine in ferro con bordi piegati ad angolo retto e montate tra loro con bulloni a vista.

Il lavoro è appoggiato a terra e, nella parte superiore lasciata libera, si inserisce perpendicolarmente una grossa lastra di plexiglas. La lastra, non entra totalmente nella struttura, sporge al di sopra e rimane sospesa. Una sospensione reale e simbolicamente trasgressiva rispetto alla logica minimale dell’oggetto. Infatti, il movimento virtuale, suggerito da una posizione apparentemente in transito, contraddice le certezze costruttive della struttura.

Nella trasparenza del plexiglas ci appare l’intensità di un vuoto, è il rischio che ogni opera deve superare prima di affermarsi, prima di comprend

Fra scherzo e finzione


 

Anche se può apparire una riflessione stravagante rispetto all’impegno esercitato, nelle opere più recenti Chiara Boniardi sembra “giocare” con una linea, un filo che ha le caratteristiche fisiche del tondino in acciaio inox, quindi un suo ingombro, un suo peso, una sua relativa elasticità e tolleranza alla torsione, caratteristiche del materiale che diventano l’elemento primario e condizionante il risultato finale. Non sull’idea astratta, sull’invenzione appariscente verte il ragionamento: è quindi un luogo espressivo di un certo impegno, esercitato però con leggerezza.

Con questo materiale, variamente piegato, Boniardi “disegna” lo spazio, con esso “scherza” (dal longobardo skerzon, ted. scherzen, “divertirsi”, “trastullarsi”), dimostrando la valenza di mimesi, di duplicazione della realtà che anche l’opera apparentemente più “altra” necessariamente contrae.

Per questo raramente Boniardi ha bisogno per le sue opere di un basamento che sostenga la scultura, quando la volontà di accentuare il carattere di figura della scultura rende inevitabile l’accorgimento. La predilezione è, invece, per il carattere autoportante dell’artefatto, un rapporto di equilibrio fra le parti e la figura conseguente. È la necessità di trovare un equilibrio a determinare la fisionomia della base, dello sviluppo e del vertice della scultura, più evidente quando assume un andamento verticale ma altrettanto presente nella figura complessiva orizzontale.

Allora un segnale tra terra e cielo, che sottolinei tanto il piede quanto il corpo e la vetta a uno spettatore che, analogamente, ha i piedi, il corpo e la testa, quindi abilitato a misurarsi con lo sviluppo solo apparentemente continuo, senza discrezioni apparenti perché è il nostro modo di “sentire” la scultura a frazionarla, distinguerla in elementi funzionali, quindi capirla.

Vi è la sensazione di uno sviluppo naturale, determinato dalle leggi fisiche, in cui l’intervento dell’artista sia limitato a scoprire figure “interne” al materiale stesso, anche se non si tratta del canonico “levare” quanto dal plasmare (ancora una volta l’etimologia aiuta perché siamo nell’area del latino fingere che ha prodotto un intrigante grappolo di termini relativi all’arte plastica) scoprendo andamenti organici di una “ripetizione differente” di uno stimolo identico che il tempo, il peso e la gravità necessariamente modificano. Ecco la paradossale sensazione di spontaneità cui si è fatto riferimento, frutto però dell’esperienza in laboratorio, del “prova e errore” che costituisce uno dei punti salienti con cui si può dividere la logica del fare arte, oggi in modo particolare.

E la variabile “tempo” mi sembra sia un ulteriore fattore da prendere in considerazione, quello della realizzazione certamente, quando progressivamente il volume prende forma nell’intervallo fra quanto realizzato e quanto ancora da mettere in essere, ma anche quello della nostra lettura dell’opera, quando da una visione complessiva, d’assieme del tutto – e questo vale per le opere di grandi come di limitate dimensioni – si passa a una più analitica decifrazione dell’opera e delle sue probabili componenti, appunto “dal piede al vertice”.

Articolo dallo scritto critico in occasione della mostra in Villa Pisani Bonetti:
“A tutto rotondo”.


Chiara Boniardi usa materiali semplici, ferro tubolare ripiegato a disegnare angoli morbidi, eppure pronti a scattare nello slancio energico della forma che si “arrampica” nello spazio oppure ne ridimensiona il ritmo. L’era post-industriale le suggerisce di ammorbidire gli angoli, di arrotondarli in modo tale che lo sviluppo della geometria sia privo di spigoli. Perciò il suo non è più un minimalismo ortodosso e votato alla radicalità della forma. Si tratta invece di un linearismo spaziale e che si sviluppa “musicalmente”, come ci suggeriscono i titoli di alcune opere. Ma forse possiamo spingerci più in là e pensare al gioco delle mani quando piegano il ferro: sono quelle forme manipolate senza fatica, che per certi versi raccolgono l’energia del nostro subconscio, a venire adesso ingigantite e riversate sui prati metafisici del parco su cui la villa si affaccia.
Così, nell’accorta distribuzione delle opere, le segrete ragioni dell’arte rivendicano la continuità e la dialettica della storia.

Ritmi, misure e dismisure, nella scultura astratta contemporanea

Mauro Corradini


“Fuori dal suo alveolo di desiderio e crudeltà”, il poeta René Char scopre nello studio di Giacometti, in un pomeriggio di aprile di quarant’anni fa, “il sembiante di Caroline, la modella” trascritto “dopo quanti colpi d’artiglio, lividi, ferite?”. L’arte è “frutto di passione tra gli oggetti d’amore” e i suoi esiti non possono che spalancare vertigini e abissi; l’opera poetica si propone, unica, come vittoriosa “del falso gigantismo dei cascami ammucchiati della morte, e anche delle particelle luminose appena separate, di noialtri, suoi testimoni temporali”.

L’arte evocata da Char è una lotta, l’epifania della contraddizione, una sorta di incontro cercato e travolgente tra visione e materia. L’antica figura retorica dell’ossimoro si presta agevolmente per interpretare le forme della scultura astratta contemporanea; la figura accosta due termini contrastanti, accomuna letteralmente lo sciocco e l’acuto, l’apparente leggerezza e/o superficialità con la profondità. Forse tutta l’arte, nella sua apparente facilità, è un ossimoro; di certo, lo è maggiormente la scultura che presentiamo attraverso alcuni bozzetti, contenuti nella dimensione, ma da immaginarsi sovente giganteschi, da leggere e interpretare come frammenti piovuti nello spazio in cui viviamo, con i loro rinvii mentali, i loro inquietanti attraversamenti di senso.

Del resto, la scultura, monumentale o non, da sempre vuole dialogare con l’abitante della città, entrare in uno spazio pubblico e misurarsi con i complessi significati della comunicazione. In una società mass mediale la comunicazione non vive solo su immagini attraverso il rinvio mentale all’iconografia riconosciuta e riconoscibile, ma su ritmi, contrasti, scansioni linguistiche; la comunicazione parte dalla struttura, portatrice di senso in forme autonome, oltre, ben oltre, il peso dell’icona che vincola e racchiude. La scultura astratta come equilibrio e rottura, limite e illimite, come invenzione di significati per intuizione ed emozione, fuori e oltre a ragione, è la risposta che il Novecento ha tentato contro l’afasia del linguaggio.

Il carattere proprio del secolo che abbiamo appena chiuso, ma forse non concluso, si riflette sull’aspetto peculiare della produzione artistica rappresentata dalla fuga astratta, riscattata dalle esperienze di inizio Novecento all’originaria funzione emotiva; contro le originarie e iniziali funzioni decorative, l’astrazione ha aperto un varco alle nuove parole, ha permesso di indagare l’animo, senza il turbamento e l’onere della memoria letteraria. Riprendiamo per un istante le ultime righe di quell’incunabolo dell’arte astratta che segna il secolo appena terminato; tre differenti ipotesi espressive segnano il cammino del grande russo: le “impressioni della natura esteriore”, gli sguardi ancora concessi alla verità del mondo che ci circonda, da cui trarre emozioni; le “improvvisazioni”, intese come “espressioni, soprattutto inconsapevoli, per lo più improvvise, di eventi mentali”, le tracce non più del mondo esterno, ma della “natura interiore”; il risultato estremo, forse il più compiuto, la terza ipotesi espressiva che Kandinskij indica con un nome tratto dalla musica, la più spirituale delle arti, la più immateriale e liberatoria, le “composizioni”, ancora espressioni della “natura interiore”, immagini “che hanno la stessa genesi” delle improvvisazioni, ma si manifestano non per illuminazioni repentine e inattese, ma con uno sviluppo “particolarmente lento” e vengono rielaborate “a lungo quasi con pedanteria”. Sembrerebbe dunque che Kandinskij, costruendo il primo ossimoro della contemporaneità, voglia ad un tempo affondare nella propria psiche, nella natura interiore, lasciare libertà al gesto e alla mano, spinto da forze riflesse, e voglia contemporaneamente e successivamente, riprendere, rielaborare e dunque razionalizzare quelle spinte originarie: l’arte non è solo un frutto spontaneo, ma una ricerca guidata. Gli insegnamenti di Von Stuck, la cultura jugend della nuova mitteleuropa recano tracce profonde nell’opera del maestro dell’astrattismo.

Le opere astratte sono già previste sulle soglie del passaggio tra primo e secondo decennio; appaiono “interne” alla scansione kandinskiana; e appaiono da subito come un compromesso tra razionalità e istintività, tra apollineo e dionisiaco, rispondendo forse alla logica di quell’arte totale che aveva stmolato la cultura europea nell’ultimo ventennio dell’Ottocento.

Anche le opere plastiche che si propongono in questa sede appaiono ad un tempo figlie tanto dell’intuizione improvvisa, quella stessa che incendia le “improvvisazioni” (ma Rimbaud aveva già parlato di “illuminazioni”), quanto della più lenta e misurata “composizione”, che rinvia alle procedure razionalizzanti della mente che tenta di frenare o porre tra binari l’intuizione emotiva, di darle forma e figura comprensibili, spiegabili (per sfuggire al vortice dell’indefinito): è il passaggio, se vogliamo, dalle forme amebiche della prima astrazione, ai ritmi calcolati, geometrici, dell’astrazione che il pittore viene maturando, a partire dalla seconda metà del secondo decennio del Novecento.

Nella ricerca che qui si raccoglie, il secolo ha aggiunto il senso di una nuova misura che riemerge in forme concrete; l’artista lotta contro l’eccesso di emozione, contro l’intensità sentimentale cercata nel gesto, nei grumi, nei corrugamenti: tra sentimento e ragione, come tra forma e antiforma, in quella dicotomia che segna tutta la storia dell’arte occidentale. Un lungo secolo (o poco meno) separa le opere che presentiamo dalle prime astrazioni “storiche”; molti eventi sono accaduti, e molte procedure hanno mutato il registro stesso del fare arte. In questa esposizione si vuole rimarcare la rincorsa verso la linea di confine alla ricerca del non-limitato; si sottolinea il bisogno strutturale che il contatto dell’arte plastica con l’attività progettuale e architettonica manifesta in forme compiute: data l’idea, elaborata la forma, emerge il bisogno di dare compattezza, solidità strutturale, rigore compositivo e bilanciato, attraverso lo studio tecnico.

Si comprende allora perché, per esempio, emerga sovente il bisogno del riutilizzo, l’accesso ai materiali tecnologici e agli strumenti propri dell’industria; si riaccende una relazione, del resto mai spenta nella storia. E dopo tanti umori, tante performances emotivamente vibranti, dopo tanto sudore e corporeità, l’arte ha avvertito, da almeno mezzo secolo, la necessità di ritornare anche all’ordine, senza fermarsi su quello. Non più lo sconvolgimento della forma infinita, non più il brivido della soglia profanata, ma la vertigine nuova di una ragione piegata all’emozione, di una scansione ritmica che perde il bisogno espressivo delle regole e l’ancoraggio alle procedure per approdare alle nuove visioni interiori che chiedono un nuovo e diverso ordine comunicativo per parlare o tentare di parlare dalla marginalità in cui il processo produttivo ha collocato l’opera.

Difficile fissare i binari rigidi al cui interno definire i percorsi dei bozzetti che qui si presentano. Ogni lettore e visitatore li interpreti come immagine conclusa di un percorso mentale e come oggetti articolati e proiettati in spazi dilatati, in spazi aperti dove tutto assume un valore nuovo, a partire dal raffronto con la natura, una natura calcolata e artificiale anch’essa, non essendo ipotizzabile una natura naturale; di fronte all’opera contemporanea occorre partire dalla natura impacchettata che dialoga con il manufatto, fiero della propria origine a metà strada tra ragione e intuizione. Dialogo non nuovo, ma sempre stupefacente; l’arte ha già affermato nel nostro secolo, più e più volte che non voleva ricreare la bellezza emotiva del paesaggio naturale. Voleva la realtà di un paesaggio mentale, in cui il segno artificiale si imponesse come presenza colta, raffinata, inquietante nella sua apparente distanza, intrigante nel rapporto rinnovato di natura e artificio. Dominante divengono la ragione, il rigore che dà forma all’intuizione in un connubio che ha la potenzialità di straordinarie aperture. Il segno si manifesta interno al fare, entra in noi come in noi entrano l’industria e i suoi prodotti; non sembri strano se alcuni di questi percorsi prendono avvio dagli scarti industriali, riutilizzati proprio perché già dotati di senso, lingua già parlata.

Quattro acclarati maestri, Pino Castagna, Riccardo Cordero, Igino Legnaghi e Helfried Kodré, orafo e scultore austriaco; quattro giovani maturi, usciti ormai dal limbo delle prove, ormai in possesso di un percorso d’autonomia, Valerio Anceschi, Chiara Boniardi, Anna Gabbiani e Rita Siragusa.

Racchiudere in poche righe ricerche e percorsi che coprono lunghe stagioni, attraversate e investite dai fremiti delle neo avanguardie (la formazione dei quattro maestri rinvia agli anni sessanta), dipanare azioni espressive che hanno vissuto e sofferto anche la fuoriuscita dalle ideologie del secolo scorso, svincolate attraverso il dialogo con le forme, oppure racchiudere in contenute riflessioni percorsi giovani, già ricchi di esperienze e vicende, appare riduttivo; peggio, può distorcere sul piano dell’epidermico e del superficiale espressioni artistiche nate con intuizioni e meditazioni e che abbisognano di un contatto lento.

In queste vicende si colgono alcuni caratteri che appaiono esemplari, ad iniziare, come si accennava, dall’uso dei materiali esistenti, in natura o in industria, materiali recuperati sia nella cultura dello scarto, che nella cultura della produzione tecnologica alla ricerca del nuovo, rimarcando il valore poetico e antiutilitaristico dell’opera d’arte, proprio nei confronti del recupero tecnologico: i prodotti industriali non solo appaiono strutturalmente rigorosi, ma sono già dotati di senso, di un significato esistente e conosciuto, che magari si vuole rovesciare. L’oggetto architettonico creato da Frank O. Gehry a Bilbao, per esempio, attrae per questi caratteri, appare come un deposito di tecnologia e luminosità piovuto dal cielo e nel contempo recupera l’idea della nave che entra nell’estuario del Douro.

Allo stesso modo, il carattere sotteso dell’opera di Riccardo Cordero va rintracciato nel senso della precarietà. Tutto il percorso dello scultore torinese appare compresso tra il bisogno di dare una forma stabile all’oggetto architettonico e il bisogno opposto di articolare le tracce formali della scultura (braccia, tensioni, scivolamenti lineari sul limitare dell’ingombro) nello spazio, come se ordine e disordine (abbiamo parlato non a caso di ossimoro) potessero e dovessero coesistere; tutto vive lo spazio e nello spazio con un rigore strutturale contraddetto ad ogni momento da aperture che spostano altrove lo sguardo del lettore; metaforicamente, Cordero ci spinge a guardare oltre, osservare al di là dell’impressione prima, ci spinge ad inseguire un sogno che supera la ragione.

In Pino Castagna dominante è il senso di riflessione tanto sul rapporto tra natura e cultura, quanto sullo spazio, luogo primario del secolo che vorremmo definitivamente chiudere. Crea Castagna strutture che dialogano con la natura: artificiale l’oggetto plastico, a sua volta artificializzata la realtà, per cui le forme appaiono ad un tempo vincolate e libere. I ritmi strutturali si dilatano, quasi che l’artista voglia comunicarci la necessità di un tempo lento nell’assunzione dei valori formali, che solo vagamente rimandano all’esperienza ordinaria, e rimarcare infine la distanza tra quotidianità e arte, tra cultura del vivere e cultura estetica: solo l’arte crea modelli, barriere e strutture più intriganti dell’oggetto che frequentiamo nella quotidianità del vivere.

L’orafo scultore austriaco, Helfried Kodré, è presente con opere plastiche che ribadiscono il contrasto, l’incontro, quasi sempre drammatico tra il vuoto e il concreto. Prende spunto lo scultore dalla geometria, realizzando forme regolari, quadrati, rettangoli; tutto secondo ragione, si direbbe. Crea tuttavia, nell’insieme dei rettangoli regolari che utilizza per concludere la sua forma, un intrico, un intreccio formale, per cui la maggior regolarità geometrica, costituita dal quadrato, si trasforma in una selva contraddittoria, piena di inquietudini e inganni. Non sembri casuale se la sua scultura proviene dal gioiello moderno, nell’ambito del quale è tra gli innovatori in campo mondiale.

Con Igino Legnaghi chiudiamo la carrellata sui maestri: nello scultore veronese dominante è il senso della stringatezza, della riduzione, ma anche il bisogno di utilizzare materiali consueti, di uso quotidiano. In Legnagli emerge il timore della parola gridata, dell’eccesso espressionista, consapevole l’artista che il grido taciuto vibra in forme più drammatiche, molto spesso, nei confronti dell’urlo; e così, il secolo che si apre con l’Urlo, sembra chiudersi con la voce sommessa che riporta ai valori, emotivi ma non solo, perché razionali, d’uso e di abitudini. Sono i valori scanditi sui ritmi che viaggiano nella nuova misura che viene dalla consapevolezza di un diverso ruolo da affidare all’oggetto che chiamiamo arte, tra visibile e mistero, tra concretezza e magia del pensiero: contrasti appunto, contraddizioni.

Per Valerio Anceschi i modelli espressivi sono legati alla fragilità che si muove nello spazio, filiformi come le dimensioni del vivere o come l’essere nella vita. I caratteri e i materiali espressivi della ricerca di Anceschi provengono dallo scarto. Viaggia ingarbugliando le forme la scelta linguistica del giovane artista, che si tuffa nei manufatti industriali, diversi per forma, figura, destinazione, per cogliere un significato recondito che rinvia agli usi passati e apre ai voli della mente che si aggroviglia nel suo girovagare su se stessa. Il vivere quotidiano e il nostro quotidiano malessere entrano in questi contorcimenti, senza togliere il desiderio di evasione; ci co-stringono ad un ancoraggio terreno, come se l’arte non potesse che specchiarsi nelle contraddizioni della coscienza.

L’opera di Anna Gabbiani sembra voler aprire varchi alle costrizioni; utilizza materiali specchianti -una costante strutturale dell’arte del secondo Novecento-, per realizzare forme che sembrano aprirsi alla vita, come se l’arte regalasse libertà e aperture. Anche per Gabbiani, i materiali sono quelli che vengono dagli usi quotidiani di un’industria onnivora; le forme rimandano ad altro, in un certo senso alludono a figure di natura che permane come sostrato mnemonico; ma il risultato contraddice la natura, evidenzia il portato mentale, appare come un volo libero che apre alla fantasia. Forse senza gioia, con slanci frenati, per stare al nostro ossimoro, in silenzio, le forme di Gabbiani appaiono ali che non hanno più aria su cui appoggiarsi e tuttavia tendono all’apertura possibile.

Una contraddizione non dissimile si ritrova in Rita Siragusa, che opera su materiali caratterizzati dalla solidità. L’opera realizzata pone a contrasto i materiali corposi, strutturalmente possenti, utilizzati e il senso leggero di qualcosa di instabile, di verticale, un’ascesa frenata, quasi un aprirsi e un richiudersi che tanto ci riconduce alla vita, di cui diviene specchio. Da qui l’ascensionalità negata, il ritmo compositivo strutturato e contraddetto da un instabile equilibrio visivo. Precarietà, fragilità: forse perché la vita non è nient’altro che una contraddizione tra opposti che coesistono, fino a risalire ad Apollo e Dioniso.

Trasparenze e vibrazioni, ordini e inganni nelle vertigini della composizione: è il portato segreto di Chiara Boniardi che chiude (idealmente) questo viaggio nelle strutture astratte di due generazioni di artisti. L’ossimoro di Chiara si evidenzia proprio in questa presenza-assenza, sottolineata dalle trasparenze, in questa certezza inquieta resa tangibile da soglie costantemente collocate quasi al limite e costantemente superate. Come se Boniardi, affondando nelle misure e negli equilibri delle forme, partendo costantemente dalla geometria, negata dalle trasparenze e dai rispecchiamenti, volesse ad un tempo trasportare la visione in luoghi informali, aspirasse a muoversi in una border line che sembra scandire da almeno mezzo secolo lo spazio dell’arte. In un’epoca contorta dove anche le certezze costituiscono un turbamento dei sensi, le contraddizioni si spengono a contatto con la violenza della verità; per questo l’arte tenta di ridarci nuove dimensioni del percepire.

Il percorso con contenuti esempi delinea le ricerche di due generazioni a confronto; limitate nella quantità, e tuttavia esemplari, dal momento che rispecchiano una tensione verso il canto a voce alta, che tutti vorremmo ascoltare. Molte di queste intuizioni vanno idealmente e mentalmente proiettate nello spazio aperto e abitato, nello spazio urbano: da cui traggono compiutezza.

Brescia, aprile 2006 

(nota: le citazioni iniziali di René Char sono tratte da Ritorno Sopramonte, nella traduzione italiana di Vittorio Sereni, Milano, Mondadori, 1974)